trauma coloniale: un pomeriggio con Samah Jabr

La psichiatra palestinese Samah Jabr è una figura di riferimento nel campo della salute mentale nei territori occupati. Con una lunga esperienza sia clinica che istituzionale, oggi opera come consulente per operatori sanitari, sociali, volontari e leader comunitari, in particolare nella Striscia di Gaza. Abbiamo avuto occasione di ascoltare il suo contributo durante due iniziative promosse dal CSC del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università di Verona: una lezione aperta rivolta al pubblico universitario e un incontro con associazioni attive sui temi dei diritti umani, della pace e del benessere psicologico. Entrambe le occasioni hanno permesso di approfondire un approccio alla salute mentale che integra l’esperienza clinica con una forte consapevolezza del contesto sociale e politico.


Ciò che ha colpito non è stato solo il racconto delle atrocità quotidiane vissute nei territori occupati; anzi, la stessa Jabr ci invita a non ridurre la complessità della condizione palestinese alla narrazione della sofferenza o a rappresentazioni romantiche dell’eroismo. Il suo discorso è invece un invito a spostare lo sguardo: a vedere, nominare e comprendere il trauma coloniale come chiave di lettura cruciale.

Il trauma collettivo è diventato, specie dopo la pandemia, un concetto familiare anche fuori dagli ambienti specialistici. Ma spesso lo si intende ancora come una somma di traumi individuali generati da un evento condiviso. La proposta di Samah Jabr è più radicale: il trauma collettivo non è solo una questione di “evento”, ma riguarda profondamente le modalità sociali e sistemiche con cui il trauma viene vissuto, tramandato e affrontato. In questo senso, il trauma coloniale non è solo un effetto dell’oppressione, ma è anche una modalità con cui il potere coloniale smantella le relazioni sociali, mina la fiducia, trasmette impotenza tra le generazioni.

Il trauma coloniale agisce in profondità, nei legami comunitari e nel corpo sociale. Non si esaurisce nel dolore individuale, ma costruisce e mantiene un ordine sociale ingiusto. Non colpisce solo chi lo subisce direttamente, ma attraversa confini, culture, narrazioni. È un trauma che organizza la realtà, non solo che la devasta. Per questo, la soluzione non può essere umanitaria, ma politica; la cura non può essere la terapia, ma la resistenza. 

Ecco perché, di fronte a questa prospettiva, la psicologia di comunità ha una responsabilità cruciale: non può limitarsi a curare i sintomi individuali, ma deve contribuire alla costruzione di contesti sociali che interrompano la riproduzione del trauma. Questo significa lavorare con le comunità, sostenere le pratiche di resistenza quotidiana, creare spazi di parola, di cura e di dignità.

In tempi in cui la salute mentale è spesso medicalizzata o depoliticizzata, la voce di Samah Jabr ci ricorda che prendersi cura significa anche resistere, denunciare e costruire insieme una memoria viva e una possibilità di futuro.

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