al centro delle collaborazioni: gli oggetti di confine

Eugene Shein, nel contesto degli studi organizzativi, si riferisce agli artefatti come a quegli elementi visibili e tangibili che caratterizzano un'organizzazione. Gli artefatti includono tutto ciò che può essere visto o sentito all'interno di un'organizzazione quando si visita o si partecipa alla vita quotidiana dell'organizzazione stessa; includono caratteristiche materiali, come l'architettura dell'edificio, il layout degli uffici, il codice di abbigliamento, o immateriali, come le pratiche lavorative, le cerimonie, i rituali, le storie condivise, il linguaggio e qualsiasi altro elemento tangibile o manifestazione della cultura organizzativa. Shein sostiene che, sebbene gli artefatti siano il livello più evidente della cultura di un'organizzazione, sono anche i più difficili da interpretare perché le stesse pratiche o simboli possono avere significati molto diversi in contesti culturali diversi.

Negli studi organizzativi, dunque, e in generale nelle Scienze Sociali gli oggetti non sono posti in una dimensione esterna e reificata, bensì vengono tenuti in stretta connessione con i processi che li hanno generati e con i processi che essi stessi generano. A tal proposito Susan L. Star e James R. Griesemer introducono la dizione di boundary object, utile a identificare quegli oggetti, materiali o immateriali, che sono al centro di sistemi di collaborazione e di attività, e quindi abitano contemporaneamente più mondi sociali intersecanti e soddisfano le esigenze informative di ciascuno di essi. Gli oggetti di confine possono essere sia astratti che concreti, assumendo significati diversi nei diversi mondi sociali, ma la loro struttura è sufficientemente comune a più di un mondo per renderli riconoscibili, fungendo così da mezzi di traduzione; sono plastici abbastanza da adattarsi alle esigenze locali e alle restrizioni delle varie parti che li utilizzano, pur essendo abbastanza robusti da mantenere una identità comune attraverso siti diversi. 


Nel loro paper Institutional Ecology, 'Translations' and Boundary Objects: Amateurs and Professionals in Berkeley's Museum of Vertebrate Zoology, 1907-39, Star e Griesemer portano come esempio la costituzione del un museo di zoologia di Berkley, che si qualifica come oggetto di confine in quanto riunisce diversi mondi sociali, come ricercatori, studenti, amministratori, e collezionisti amatoriali, facilitando la collaborazione tra di loro. Esso fornisce un contesto e risorse comuni — come collezioni, dati di ricerca e spazi di lavoro — che sono interpretati e utilizzati in modi diversi dai vari gruppi coinvolti. 

Si pone dunque al centro la necessità di mettere in dialogo tra loro diverse discipline e le epistemologie che le informano; da questo punto di vista, gli autori sottolineano che un'analisi ecologica non presuppone la primazia epistemologica di nessun punto di vista specifico, permettendo così una comprensione più olistica dell'interazione tra vari attori e gruppi. Questo approccio è anti-riduzionista e considera l'intera impresa scientifica come unità di analisi, invece di focalizzarsi esclusivamente sulla prospettiva dell'amministrazione universitaria o dello scienziato professionista. In ogni ambito, gli oggetti di confine permettono ai partecipanti di mantenere la propria autonomia e prospettiva, pur partecipando a un processo condiviso di scambio e comprensione, dimostrando così la loro versatilità e importanza nelle pratiche collaborative.

Per saperne di più: link al paper






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